Ovvero
La vita, le avventure, i sogni, gli amici e i nemici di
Mevlut Karataş, venditore di boza, nonché una panoramica della vita di Istanbul
tra il 1969 e il 2012, raccontata dal punto di vista dei suoi cittadini.
Il 9 novembre scorso il premio Nobel turco Orhan Pamuk ha
presentato il suo ultimo romanzo alla libreria Politics and Prose di Washington. La prima domanda che si è
sentito rivolgere dal giornalista e scrittore Elliot Ackerman è stata: perché
un sottotitolo del genere? Pamuk ha raccontato un aneddoto. Nel mezzo di una
lezione alla Columbia University, dove insegna Arte del Romanzo, disse qualcosa
del tipo: “…e come sapete, alla fine Anna
Karenina si suicida”. Uno studente lo bloccò: “No, professore! Per favore, non ci dica come va a finire la storia!”.
Me lo sono immaginato in stile L’Attimo Fuggente: il professor Pamuk-Keating che si ferma per un
momento, lo sguardo e il corpo congelati sull’ultima frase. Ha bisogno di
prendersi qualche secondo per accusare il colpo, poi volta le spalle alla
classe e si avvia verso la cattedra. Poggia Anna
Karenina, anzi lo sbatte sul tavolo. Infine si volta verso la classe e
urla:
“UN. ROMANZO. NON.
È. LA. SUA. TRAMA! CHIARO?!”
Chiaro. In seguito ha chiarito il concetto anche ai lettori,
infatti La stranezza che ho nella testa
si apre con un sottotitolo di sei righe e un primo paragrafo che riassume la
storia. Pamuk ci dimostra così che leggeremo ugualmente un libro di cinquecento
pagine. Perché non è la trama il cuore della letteratura, ma quel non so che di “perturbante” – Pamuk utilizza proprio la parola “uncanny” – su cui i fatti scivolano come
barchette di carta su un torrente. Il cuore di un romanzo è quella scintilla per
cui, dopo aver letto l’ultima pagina, un brivido corre lungo la schiena e una
domanda si affaccia alla coscienza: cosa intende dirmi questa storia, sull’essere
umano?
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